L´Autore ripercorre le suggestioni del periodo post-bellico, servendosi dei racconti di famiglia e dei pettegolezzi del vicinato, per cercare traccia di quel “mal comune” che fa della Sardegna la patria dell´invidia. Un percorso lungo oltre mezzo secolo, attraverso il quale l´isola passa da una condizione di indigenza a una di appagante benessere, diffuso soprattutto tra i ceti medio-alti della popolazione.
Complici di questa metamorfosi sociale furono, senza dubbio, gli Alleati e in modo particolare gli americani che con la Fondazione Rockefeller, costituita per l´eradicazione della malaria e il Piano Marshall (European Recovery Program), gettarono le basi per una rapida ascesa economica. Icasticamente, agli americani bastarono tre lettere per la ricostruzione (ERP) e tre lettere (DDT) per risolvere il problema della malaria, ma nulla poterono contro il dilagare dell´invidia e dell´egoismo che la loro presenza e il loro stile di vita avevano alimentato. Un autentico demone che poneva in ombra le virtù di un popolo conosciuto e apprezzato per generosità e ospitalità.
Solo la presenza di un tenace prete di campagna, profondo conoscitore dei mali dell´umanità, riuscì ad arginare e talvolta a inibire il male oscuro che si insinuava nell´animo dei suoi fedeli. Egli era anche un profondo oppositore dei luoghi comuni e le asserzioni, anche di prestigio, che contribuivano a relegare la Sardegna dentro uno scomodo aggettivo. E chi gli domandava quale fosse il vizio capitale al quale i sardi erano particolarmente inclini, rispondeva sempre con sagace ironia: su fàmini, la fame. E del resto, come si poteva dare ragione a chi sosteneva d´aver visto più cristiani cadere per l´invidia che per la malaria, in un´epoca in cui c´era veramente poco da invidiare?